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Destinazione Ravensbruck

LE ROSE FIORIRANNO ANCORA

Non c’erano rose a Ravensbrück nell’estate del 1944, quando Gabriella Perera, dodici anni, arrivò al lager nascosto tra i boschi, 80 chilometri a nord di Berlino, insieme con la mamma Raimonda Devaux e la sorella ventenne Mirella, portate via a febbraio, dalla loro casa di Bordighera, dai repubblichini. Erano partite da Vallecrosia, estremo ponente ligure: un piccolo campo di raccolta della Rsi – praticamente dimenticato o più facilmente una memoria rimossa, com’è accaduto a decine e decine di altri in Italia – un edificio austero a neanche quindici chilometri dal confine francese che avrebbe significato la salvezza e la libertà, per lei come per le altre donne ebree recluse. Una ex caserma diventata prigione per gli ebrei e i detenuti politici ma anche per i militari che si erano rifiutati di aderire alla Repubblica sociale, insieme con le famiglie dei partigiani e dei giovani renitenti al bando di Badoglio. Gabriella, che riuscì a tornare, dopo aver trascorso un anno tra Ravensbrück e Bergen Belsen, e a vivere la sua vita a Genova, raccontava cinquant’anni dopo il suo disorientamento ma anche l’amarezza e la rassegnazione: nella sua famiglia, come in molte altre, si sapeva quale futuro fosse destinato agli ebrei; la speranza di sopravvivere, o anche solo di non vivere al peggio quei mesi, era affidata all’incontro con poche, singole persone, e ai loro comportamenti.
I tedeschi mi hanno tolto tutto e, inoltre, mi hanno umiliata con l’intenzione di disumanizzarmi; però nella cattiva sorte sono stata fortunata. Infatti, una kapò mi aveva offerto un po’ del suo spazio in un letto che era molto meglio del mio.
L’orrore che ha affrontato, invece, Gabriella non lo racconta. Nella sua testimonianza, davanti ai ragazzi di una scuola media, dice di aver assistito a episodi tragici e di averli anche subiti «ma non posso descriverli perché siete troppo piccoli». Testimonia invece Dora Venezia, giunta diciottenne al campo:


A Ravensbrück ci fecero stare circa un mese. Era un campo terribile; c’erano dei laboratori sotterranei nei quali venivano fatti esperimenti su di noi, ci usavano come cavie umane. Costringevano anche noi a fare esperimenti sulle altre nostre compagne: a me, un giorno, ordinarono di fare un’iniezione di pus a una ragazza ungherese… ero scandalizzata, tra l’altro non sapevo da che parte iniziare a fare un’iniezione. Non ho più saputo che fine abbia fatto quella poveretta.


No, non c’erano le rose, allora. Ci sono oggi, piantate lungo i muri della recinzione, sopra la terra che ricopre ciò che resta delle tante che da quel campo, nascosto tra i boschi, affacciato su un laghetto circondato da conifere e betulle, a prima vista idilliaco – come raccontano, nel film Le rose di Ravensbrückdi Ambra Laurenzi, le voci di alcune tra le 871 ex prigioniere che insieme a 391 uomini, tra i 1200 internati giunti dai campi di raccolta italiani, riuscirono a tornare – agli occhi delle donne e delle ragazze appena scese, sporche, affamate, stremate, dai vagoni piombati che le avevano trasportate lassù. Altre rose – non a caso una varietà chiamata Resurrezione – sono state piantate trent’anni dopo a Parigi, al cimitero del Père Lachaise, davanti al monumento che quelle donne ricorda. Così la rosa, fragile e fortissima insieme, è diventata il loro simbolo: quello delle donne sottoposte a pratiche innominabili, scelte di proposito come cavie in un lager – il cui nome significa “ponte dei corvi” – che si rivela subito l’inferno. Perennemente immerse nella calca, una babele di lingue in cui le italiane si ritrovano concentrate insieme, alla ricerca di una consolazione da quello straniamento che impone loro di stare nude, rapate, spaventate, davanti a uomini urlanti ordini. Un terrore che non ha nazionalità, perché le accomuna tutte. La francese Catherine Roux, poi liberata il 5 maggio del 1945, appena arrivata a Ravensbrück scrive questi versi intensi e commoventi:


Mio Dio, non ho più vestiti addosso,

non ho scarpe
non ho borsa, portafoglio, penna,
non ho più nome. Sono stata
etichettata 35282.
Non ho i capelli
non ho più un fazzoletto,
non ho più foto di mia mamma
e dei miei nipoti,
non ho più l’antologia in cui,
ogni giorno, nella mia cella di Fresnes,
ho imparato la mia poesia,
non mi è rimasto niente.
Il mio cranio, il mio corpo, le mie mani
sono nude


Eppure, oggi che le testimoni, vinte dallo scorrere del tempo, sono sempre di meno, anche di fronte all’orrore, a quello che non si può e non si deve dimenticare restano, emergenti dalle testimonianze ma anche dalle lettere, da poesie e racconti scritti da chi è riuscita a mettere su carta quello che ha vissuto, storie di amicizia, vissute nel lager o tessute nuovamente nella vita “dopo”. La gran parte di queste storie, però, raramente venne raccontata al rientro dai campi: sicuramente per lo shock vissuto e il desiderio di dimenticare ma anche perché, rispetto a ciò che gli uomini tornati dalla deportazione potevano dire su quanto avevano vissuto, alle donne si dava meno attenzione, meno credibilità. «Anche perché le donne hanno pagato come gli uomini ma al ritorno abbiamo trovato diffidenza perché eravamo donne», ha raccontato una di loro. Una cosa per tutte: il pensiero, non troppo nascosto, che le deportate fossero state utilizzate come prostitute dai nazisti, anche se questo non era avvenuto a Ravensbrück, lager peraltro meno noto di Auschwitz o Mauthausen, tanto che alcune non furono quasi credute quando parlarono di quanto accadeva ogni giorno là, nei laboratori sulle rive dell’idilliaco laghetto. Oggi, mentre in tutta Europa crescono i movimenti e le derive xenofobi e revisionisti che pretenderebbero di negare un orrore che la memoria, invece, deve tenere sempre vivo, vengono alla luce storie sempre nuove, come quella del piccolo campo di concentramento di Vallecrosia, delle sue donne deportate e dell’oblio che lo ha avvolto fino almeno ai primi anni di questo secolo, simbolo – e per questo è da qui la partenza di questo libro – della volontà di cancellare un passato di cui troppi hanno scelto di vergognarsi in silenzio. Non avevano vergogna alcuna di urlare il loro desiderio di vita, invece, le migliaia di donne da tutta Europa che in quel lager sulle rive del lago brandeburghese lottarono per vivere, a volte riuscendo a tornare, troppo spesso lasciandoci la vita. E facendo arrivare a noi solo i loro nomi, le loro storie, quando è stato possibile. Sono passati settantacinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Ma quei nomi, quei racconti, le testimonianze dell’orrore che circondava le internate, accanto alla bellezza di un affetto, di un’amicizia, di un gesto d’umanità, aiutano a crescere forti le rose che, anno dopo anno, continuano a fiorire a Ravensbrück.

tratto da “DESTINAZIONE RAVENSBRÜCK L’orrore e la bellezza nel lager delle donne”
di DONATELLA ALFONSO LAURA AMORETTI RAFFAELLA RANISE


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