Pasquale Santoro soffriva di amnesia selettiva congenita, una patologia conosciuta anche come morbo di Mooney, dal nome del medico inglese Henry Mooney, che nel 1933 ne aveva descritto le caratteristiche, studiandone i sintomi in alcuni suoi pazienti. Non si tratta di una semplice perdita della memoria, in quanto non siamo in presenza della degenerazione di cellule nervose o dei postumi di un trauma e neppure della rimozione a livello psichico. Anzi, la diagnosi è fondamentalmente basata sull’esclusione dei danni neurologici o dei fattori inconsci. Pur non riuscendo ancora a spiegarne le cause, questo criterio costituisce l’unico modo per poterla individuare. Essa si presenta in soggetti assolutamente privi di altre compromissioni e dipende dalla volontà che essi stessi esercitano nel conservare o meno in memoria le loro esperienze. Dunque, Pasquale, fin dalla nascita, si era trovato nella condizione di dimenticare volontariamente alcuni aspetti o episodi della sua vita. Questa sua caratteristica gli aveva procurato non pochi fastidi in età scolastica, poiché nessuno dei suoi insegnanti aveva mai interpretato le sue impreparazioni, come il segno di una difficoltà reale, ma aveva attribuito soltanto al suo scarso impegno la conoscenza frammentaria ed incompleta che rivelava nelle interrogazioni. Il suo rendimento era stato infatti scarsissimo e il suo curriculum costellato da ben tre ripetenze, dovute ai suoi continui “Non ricordo”. Certamente, come si suol dire, lui ci aveva un po’ marciato sopra, specialmente con quegli insegnanti che si erano rivelati più comprensivi nei suoi confronti. Ad esempio con la professoressa Capitani di italiano nell’istituto tecnico, che, unica eccezione, aveva avuto il sentore di qualcosa di ben diverso della negligenza. Per quanto riguardava la disciplina che lei insegnava, infatti, Pasquale aveva “deciso” di scordarsi quasi tutti gli argomenti relativi alla letteratura italiana, approfittando del fatto che la prof. non era con lui particolarmente punitiva. Ebbene sì, tutto dipendeva dalla sua decisione: la sua memoria si vuotava solo quando lui lo voleva e questo gli consentiva di ottenere ulteriore spazio per archiviare i dati, proprio come avviene in un hard disk. Analogamente, però, ciò che viene cancellato non può essere più recuperato e si perde per sempre. La rimozione, in quanto cosciente, risulta pertanto definitiva. Si tratta di un atto irreversibile. Questo aspetto può offrire qualche forma di vantaggio, nel caso, ad esempio, dei “brutti ricordi”, che possono gravare su una persona per tutta la vita, ma la cancellazione totale di quegli specifici ricordi rende assai complessa la decisione su cosa trattenere o eliminare. L’aspetto che infatti più pesava ora sull’esistenza di Pasquale, che aveva superato da poco i cinquant’anni di età, era l’impossibilità di ripescare nella memoria ciò che lui aveva gettato via, magari in un impeto di rabbia o per qualche motivo irrilevante. Quanti peccati di gioventù avrebbe voluto e potuto evitare. Solo ora si rendeva conto di quanto fosse necessario avere viva la memoria di fatti che alcuni trattavano con grande convincimento, ma che per lui rappresentavano soltanto vuote parole: occupazione nazista, Resistenza, lotta partigiana, liberazione… il significato di tutto ciò era per lui oscuro. Era consapevole di avere escluso dal ricordo questi argomenti all’epoca in cui suo padre gli raccontava della sua giovinezza. Essa appariva ai suoi occhi distante e poco significativa, così come distante e poco convincente gli sembrava un padre ormai vecchio che tentava di far rivivere quel lontano passato che nulla aveva a che vedere con il presente. Pasquale era l’ultimo di quattro figli, due femmine e due maschi, ed era nato quando il suo genitore aveva quarantacinque anni. Questa distanza generazionale lo aveva indotto a rimuovere qualsiasi rimando all’esperienza paterna, che, narrata, a suo giudizio, con eccessiva enfasi retorica, la riduceva a un racconto mitologico privo di qualsiasi riferimento alla realtà. Lui si sentiva libero e non comprendeva il senso dell’oppressione che suo padre diceva di avere patito. Per Pasquale gli uomini non potevano essere stati dominati da una dittatura o tanto peggio essere stati torturati e offesi nella loro dignità, così come si ostinava a sostenere suo padre, se non in un’epoca di primitiva inciviltà. Tra Hobbes con il suo “Homo hominis lupus” e Locke con il suo contratto sociale, Pasquale aveva sempre preferito il secondo, convinto che la natura umana fosse più propensa all’accordo, piuttosto che allo scontro. Quello che suo padre narrava si riferiva pertanto ad una fantasia utile per ingigantire quel senso di rispetto dei valori che lui voleva fosse appreso dal figlio. “Elimina” era l’ordine che partiva dalla volontà di Pasquale, eliminare tutto quanto riguardasse questo argomento era l’imperativo che in qualche misura lo avrebbe salvaguardato da ogni futuro ripensamento. Ma il tempo trascorso da quelle paterne disquisizioni, la sua attuale condizione di vecchio e le celebrazioni imminenti di un evento, che Pasquale aveva scientemente obnubilato, accaduto settantaquattro anni prima, generarono in lui la curiosità di conoscere davvero i fatti di allora. Suo padre era però scomparso già da dieci anni e la sua assenza gli impediva il recupero delle informazioni necessarie. Pensò allora di rivolgersi ad un caro amico di famiglia, coetaneo di suo padre e ancora in vita, che aveva condiviso con lui l’esperienza partigiana contro i tedeschi e i fascisti, altro termine quest’ultimo che era stato completamente oscurato da Pasquale e di cui lui non conosceva il significato autentico. Decise di andarlo a trovare per poter parlare con lui di queste cose. Lo trovò a casa sua disteso sul letto, con la moglie e i due figli vicini. Le sue condizioni fisiche, da poco più di un mese, non gli consentivano più di stare in piedi e lo avevano costretto all’immobilità. Nonostante i suoi novantacinque anni e il suo stato di salute, Teresio, questo era il suo nome, era ancora molto lucido e il suo discorrere era fluente e chiaro. Riconobbe immediatamente Pasquale e fu felice di rivederlo. L’ultima occasione in cui si erano incontrati era stato il funerale di Rocco, il padre di Pasquale. Da allora non si erano mai più incrociati, nemmeno per caso. “Sono venuto da te perché tu possa aiutarmi a ricordare ciò che io non ho voluto ricordare quando ero giovane”, esordì Pasquale, la cui situazione era conosciuta da Teresio in tutti i dettagli. “Forniscimi un solo motivo perché io debba farlo”, fu la risposta immediata. “Perché sto soffrendo per tutto quello che ho dimenticato e non posso più andare avanti senza sostenermi sul passato”. Il volto di Teresio si distese in un sorriso. Cominciò a raccontare dell’8 settembre del 1943, della sua fuga dal luogo dove si trovava in servizio militare, del suo ritorno a casa, della scelta di vivere nella clandestinità con alcuni compagni armati nelle Langhe con il nome di battaglia di Vincenzo, di un imboscata ad un camion di tedeschi da lui compiuta, del rischio di essere catturato durante un rastrellamento, del dolore e della rabbia provati per aver visto morire davanti ai suoi occhi sotto i colpi di un mitragliatore tedesco una giovane staffetta della loro brigata… e andò avanti con altri episodi, mentre Pasquale lo ascoltava con grande attenzione. “Vedi, Pasquale, io avrei voluto dimenticare, perchè ciò che ho vissuto non dovrebbe più ripetersi né per me, né per chiunque altro, ma se avessi cancellato la memoria di ciò che è stato, oggi qualcuno potrebbe riproporre la stessa violenta e prepotente arroganza accolto da una generale indifferenza o peggio dal consenso e dal sostegno di coloro che credono che l’uomo forte sia la soluzione di tutti i nostri mali. Io sono ormai giunto al termine del mio percorso. Fra non molto nessuno potrà ascoltare direttamente dalla mia voce quello che ho vissuto. Ma tu puoi fare in modo che le mie azioni e le mie parole non si disperdano. Ti lascio una consegna che è al tempo stesso l’eredità che voglio tu possa conservare e che tu possa trasmettere a chi verrà dopo di te: non dimenticare, non dimenticare mai”. Gli occhi di Teresio fissavano quelli di Pasquale con un’intensità straordinaria. I due si abbracciarono.
Tre giorni dopo Teresio morì. Al funerale, oltre ai suoi familiari e ai suoi parenti, partecipò anche una schiera di vecchi partigiani, molti di loro con i loro figli e nipoti. Anche Pasquale era presente. Egli volle pronunciare poche parole di commiato al termine della funzione. Si avvicinò al microfono e disse: “Ho avuto la fortuna di conoscere Vincenzo molti anni fa attraverso mio padre, di cui era grande amico. Di lui ho sempre apprezzato l’onestà intellettuale e la disponibilità disinteressata verso gli altri, nonché la sua estrema riservatezza nel parlare di sé. Non avevo mai voluto sapere che cosa fosse accaduto in collina tra il 1943 e il 1945, anni che lo hanno visto attivo come partigiano. Ma oggi, dopo che sono venuto a conoscenza di ciò che lui ha fatto, desidero raccontare a tutti voi le sue imprese, non per esaltarlo come eroe, ma per ricordare, sì ricordare per non dimenticare un uomo comune che ha permesso a tutti noi di assaporare il gusto di essere liberi, non condizionati dal peso insostenibile del presente.” e cominciò dall’8 settembre del 1943, parlò della sua fuga e del ritorno a casa…
Franco Bozzo