I carabinieri rifiutano di sparare sugli antifascisti condannati a morte il 14 gennaio 1944 A San Martino .
Nelle prime ore del 14, Il comandante della Legione dei Carabinieri di Genova (che non era stata ancora disciolta dai tedeschi) ordinò per telefono al Tenente Giuseppe Avezzano Comes di recarsi con un plotone di 20 carabinieri al forte di San Martino Per eseguire un “urgente servizio di ordine pubblico”. Giunto sul posto il plotone trova la località deserta; solo dopo un’ora circa quando già i Carabinieri stavano per rientrare in caserma giunsero con alcune macchine numerosi ufficiali e militari tedeschi e fascisti che accompagnavano otto persone in ceppi.
Quindi un colonnello della milizia fascista, in divisa, qualificandosi per il Console Grimaldi, ordinò al tenente Avezzano di procedere alla esecuzione immediata mediante fucilazione di 8 traditori che il tribunale fascista aveva condannato a morte durante la notte per vendicare un attentato avvenuto in Genova il giorno prima contro 2 ufficiali tedeschi.
A tale ordine il coraggioso tenente dei Carabinieri oppose immediatamente un secco ricevuto dichiarando di non riconoscere la legittimità di tale ordine né di chi lo impartiva, né del tribunale che lo aveva emesso.
Non valgono le grida feroci Degli ufficiali tedeschi e fascisti che minacciano di far fucilare il tenente assieme agli otto patrioti: l’ufficiale mantiene fermo il suo rifiuto. Insultato e duramente percosso egli viene disarmato dalle SS e, per ordine di Grimaldi, rinchiuso in una vicina casamatta del forte.
Gli uomini delle SS e della G.N.R. dispongono allora i condannati di fronte, due alla volta, e li massacrano costringendoli a salire sui corpi dei compagni caduti mentre questi ancora si dibattono nell’agonia.
Il tenente Avezzano Comes subì poi le torture della Feldgendarmerie restando imprigionato sino alla Liberazione. Si ignora la sorte dei 20 carabinieri. Con il loro aperto rifiuto di eseguire l’ordine del Tribunale repubblicano essi erano ormai idealmente schierati al fianco degli otto martiri della Libertà.
Chi erano queste prime vittime della ferocia nazifascista? Indubbiamente la loro morte arrecava un duro colpo alla organizzazione clandestina genovese perché fra loro vi erano uomini del C.L.N. , responsabili di gruppi patriottici delle varie zone della città e attivi dirigenti del Movimento Operaio Clandestino. Il loro comportamento innanzi ai carnefici confermò, del resto, che si trattava di uomini pienamente coscienti, sul piano ideologico e politico, delle loro responsabilità nella lotta antifascista.
Provenivano dalle più diverse categorie sociali e aderivano a ideologie diverse: il più duramente colpito dalla loro morte era però ancora una volta il Partito Comunista Italiano che perdeva fra loro alcuni dei suoi più attivi dirigenti e militanti.
Uno di questi era il prof. Dino Bellucci, insegnante al Convitto Nazionale, responsabile della stampa clandestina del P.C.I. a Genova.
Dalle feritoie egli può vedere ciò che avviene nel cortile: Il Console della milizia fa schierare di spalle al muro gli otto patrioti e ordina il fuoco al plotone dei Carabinieri: ma questi rivolgono le armi contro il cielo. Ad essi si rivolge allora uno dei condannati, il prof. Bellucci che, con mirabile altruismo comprende quanto sta avvenendo nelle loro coscienze ed il rischio a cui perciò si espongono: “ragazzi, fate presto, mirate diritto al cuore, se non mi uccidete voi mi uccideranno gli altri”. Invano strepitano Grimaldi e gli altri ufficiali nazisti e fascisti, sono costretti a sospingere via i carabinieri e a procedere essi stessi all’esecuzione.
Giovanni Bertora è invece un giovane iscritto al Partito d’Azione. Proprietario della tipografia “Grafotecnica” di via Assarotti stampa manifesti e giornali clandestini, tra cui “Italia Libera”, organo di Giustizia e Libertà. E’ sposato e padre di una bambina nata il giorno stesso in cui egli viene arrestato. Condotto nel carcere di Marassi è torturato nel più atroce dei modi: ma egli non rivela alcunché; continua a insistere che i giornali clandestini sequestrati venivano da lui stesso stampati senza l’aiuto di alcuno.
Luigi Marsano di 33 anni, era un operaio saldatore elettrico della ”Termos”. Nel Quartiere della Marina tutti lo conoscevano con il nome di “Luigin”. Effettuava trasporti di armi e di stampa clandestina per le formazioni partigiane, mantenendo i collegamenti con il C.L.N. del Porto. Anche lui dopo l’arresto era stato ferocemente torturato. Prima di morire riuscì a far pervenire questo biglietto a sua madre:
Cara madre
ti ho sempre pensato fino alla ultima ora della mia vita, non piangere pensa ai nipotini al padre alla famiglia alle sorelle al fratello. Non so dirti altro in questo momento. Perdonami.
Il tuo figlio Luigi
Romeo Guglielmetti, il tranviere, era notissimo presso tutti gli operai ed il personale della UITE nella quale era il responsabile dell’organizzazione clandestina antifascista.
Per incarico del P.C.I. aveva organizzato forti gruppi di patrioti nella zona della Val Bisagno.
Amedeo Lattanzi è uno dei più vecchi del gruppo. Militante nel Partito Comunista dal 1921 ha sempre partecipato alla lotta.Dopo l’8 settembre fa della sua edicola di piazza Di Negro il centro di smistamento per le zone del ponente dei fogli clandestini “Unità” e “Italia Libera” e dei manifesti del C.L.N. L’edicola è uno dei punti principali di collegamento e di rifornimento per i gruppi partigiani. Prima di morire viene duramente torturato alla Casa dello Studente. Il suo ultimo scritto indirizzato ai familiari fu recuperato grazie alla costanza e al coraggio di sua moglie la quale ripetutamente all’indomani della fucilazione ne reclamò la restituzione presso il frate cappellano della G.N.R. Egli subdolamente tentò di ottenere dalla signora Lattanzi delle informazioni sui partigiani e non consegnò la lettera se non dopo che la stessa riuscì ad allontanare ogni sospetto di essere al corrente per l’attività del marito.
La lettera dice:
“Io sottoscritto Lattanzi Amedeo Condannato a morte lascio tutto ai miei figli Italia, Emilio, Maria e mia moglie eredi. Muoio tranquillo e a voi figlie e figlio e moglie e parenti tutti chiedo perdono di quanto soffrite per me, non lutto ma fede in Dio. A te cognato Eligio lascio la guida, e prendi in consegna il mio cadavere. Vi bacio tutti, vostro disgraziato marito e padre.
Lattanzi Amedeo – Addio – Addio”
Il figlio di Lattanzi, Emilio, sarà fucilato il 23 di dicembre 1944 a Schonfield (Germania) dove era stato deportato l’8 settembre 1943.
Degli altri tre fucilati di San Martino vi sono più scarse notizie; si tratta di patrioti organizzati clandestinamente, arrestati in diverse zone della città dalle SS.
Giacalone è molto noto nella zona di Staglieno in cui svolgeva la sua attività clandestina, Veronello è un gappista, l’oste Mirolli aveva fatto del suo locale un punto di ritrovo e di collegamento dei patrioti.
L’atroce rappresaglia compiuta il 14 gennaio ha una forte ripercussione in città e in montagna. Ma non nel senso sperato dai fascisti: uno dei primi distaccamenti della Divisione Cichero prende il nome di “Dino Bellucci”; anche la 386° Brigata SAP prenderà, più tardi, il nome del professore comunista; a San Fruttuoso si costituisce un primo nucleo partigiano che diventerà la Brigata SAP “Guido Mirolli”. Nella zona di San Teodoro gli amici e i compagni di Amedeo Lattanzi formano una Brigata che prenderà il suo nome. Così nella Val Bisagno, tranvieri e giovani che Romeo Guglielmetti aveva organizzato e incitato alla lotta antifascista danno vita ad una valorosa Brigata che si chiamerà “Romeo Guglielmetti”.
(L’episodio è stato ricostruito da Callisto Saettone sulla base di testimonianze documenti e con la testimonianza del tenente Avezzano Comes).
fonte: “cronache militari della Resistenza in Liguria” di Giorgio Gimelli