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Fieri della Resistenza perché insegna a disobbedire e a pensare

“Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale,” ha scritto Claudio Pavone, “è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù.”
Quando, dopo l’8 settembre 1943, la guerra entrò nelle case degli italiani e delle italiane, ogni giorno bisognava decidere cosa fare. Non fu facile, per molti, ma le città e le campagne si rivelarono capaci di grande coraggio. Nonostante le ordinanze e i proclami dei nazifascisti, feroci, proibissero ogni sorta di solidarietà con i perseguitati, la gente imparò a disobbedire e fin dalle prime ore dell’occupazione migliaia di famiglie nascosero e ospitarono uomini e donne in fuga: militari alleati, sbandati e antifascisti, ebrei.

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Altrettanto indiscutibile fu la generosità con la quale, al Nord, i contadini si presero cura degli sbandati dell’esercito. “Caddero le barriere razziali,” ha scritto Nuto Revelli, “anche i ‘terroni’ adesso erano italiani da aiutare. Saltarono fuori giacche, pantaloni, gli indumenti borghesi dei figli lontani, dei figli dispersi o morti sui vari fronti di guerra.” A essere rinvigorita fu l’antica tradizione dell’ospitalità contadina, atto disinteressato, dovuto a chi è incapace di recare offesa, povero tra i poveri. E in questo caso, il rapporto che si instaurava con il contadino era il legame più semplice tra uomo e uomo: quello di chi ha bisogno e chiede, e di chi lo aiuta come può, senza gesti superflui.

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In molti altri impararono a protestare: gli scioperi del marzo del 1944 nel triangolo industriale – Genova, Torino, Milano – furono un evento unico nell’Europa occupata dai tedeschi. Se negli scioperi che avevano punteggiato il corso del 1943 sembravano prevalenti i motivi economici (le rivendicazioni salariali) e la richiesta della pace, nel 1944 quelle lotte assunsero un aspetto decisamente politico e si configurarono come uno scontro aperto con la Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca.

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  Oggi si stima che circa 12.000 operai vennero deportati nei campi di concentramento tedeschi in seguito ad azioni di sciopero. Ciononostante, proprio la riappropriazione su vasta scala dello sciopero, un’arma di lotta per vent’anni bandita dal fascismo, e la riconquista dell’agibilità politica della fabbrica, ritornata a essere un centro di organizzazione e di autonomia, furono la testimonianza di comportamenti segnati da un marcato protagonismo politico.

Tratto da “Fieri della Resistenza” di Giovanni De Luna

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